Recensione Nickelback - Here and Now - Metallized.it (2024)

La recente uscita del documentario autobiografico Hate to Love (regia di Leigh Brooks, 2023) ci offre una nuova scusa per tornare a parlare dei Nickelback, i rocker più contestati nei dieci anni di apertura del terzo millennio.

Paladini del mainstream fin dai tempi del singolone How You Remind Me (2001), i quattro hanno dominato con il pugno di ferro le chart mondiali assicurandosi milioni di copie vendute, riconoscimenti preziosi (oro, platino e diamante), una lista chilometrica di hit e l’ambitissimo trono della US Billboard 200, il numero uno per antonomasia raggiunto grazie al top-album All the Right Reasons (2005), la cui scaletta a prova di bomba è ancora oggi la migliore della loro intera discografia.
Conservata l’egemonia anche nel triennio successivo alla pubblicazione di Dark Horse (doppio-platino nel 2009 e ancora best-selling rock album nel 2010), la band come se non bastasse ha realizzato un altro grande sogno esibendosi durante la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi Invernali nel natìo Canada, un ricordo indelebile per dei musicisti acclamati -strano a dirsi- come veri profeti in patria.

Rientrati in studio con l’idea di bissare i fasti dei lavori precedenti, Kroeger e compagni non deludono le attese e nel settimo capitolo Here and Now forniscono l’ennesima prova di forza in chiave radio-rock, ovviamente premiata da notevoli riscontri commerciali (1# in patria e nella US iTunes Album Chart) anche se non dal gradino massimo della Billboard, soffiato da Christmas del “Terminator Natalizio” Michael Bublé. Statistiche a parte, i Nickelback nel 2011 dispongono di uno stile ormai rodato e vincente, imperniato su una formula tripartita (pezzi hard rock, ballad, mid-tempo rock) in grado di catturare in un battito di ciglia l’ascoltatore, persuaso dall’appeal melodico delle tracce soft e gasato a dovere dall’energia di quelle più dure aventi protagonista sempre e comunque la voce del main leader, identificativa e riconoscibile in una manciata di secondi.

Solcando con patentata esperienza gli ampi mari del rock generalista, i canadesi lanciano un attacco immediato ai nemici/detrattori nella guerrafondaia This Means War (solido il basso di Mike Kroeger, roccioso il bridge che assume toni quasi metallizzati) e fanno impennare il tasso alcolico nella festaiola Bottoms Up, bomba hard rock alla “Una Notte da Leoni” trainata dalla batteria viziosa, dall’assolo impregnato di whisky e dal temperamento melodico del frontman, qui nelle azzeccate vesti del compagno di bevute che tutti vorremmo incrociare ad un party scatenato. Il docile mid-tempo rock di When We Stand Together (criticante il disinteresse e l’ipocrisia della gente perbene) abbassa i livelli di testosterone, ma fortunatamente Midnight Queen ci risbatte negli anni ’80 in mezzo a bar malfamati, liquori dalla gradazione ignota e donne super-sexy quanto pericolose, tutto in tre incendiari minuti vintage dominati dal ritornello sessuale e vitaminico di un ingrifatissimo Chad Kroeger. Non lontano da un ideale Sunset Strip echeggia poi il corposo rombo hard rock di Gotta Get Me Some, affine a Bottoms Up nel rimpastare i dettami del Leopardo Sordo cannoneggiando in un altro refrain da sballo atto a declamare le qualità di un’eccitante femme-fatale.
Dopo una tale sbornia occorre placare gli animi e in un contesto rock niente funziona meglio di una (o più) ballad, asso nella manica del gruppo a partire dalle ormai storiche Far Away e Photograph: qui abbiamo la commovente Lullaby (dedicata all’ex-babysitter dei fratelli Kroeger che, mentre li accudiva, fu avvisata di un incidente nel quale aveva perso la vita il fidanzato e lei, per non farsi udire, tentò di soffocare le lacrime alzando il volume dello stereo), la romantica Trying Not to Love You, la godibile ma troppo sdolcinata Don’t Ever Let It End e la pregevole Holding on to Heaven, un bel poker radio-oriented guidato con fermezza dalla voce calda, melodica e un po’ ruffiana del singer. Ad ogni modo, nelle pieghe sentimentali ora delineate si insinuano dei “correttivi” rock/hard rock utili a movimentare questa parte della tracklist e il riferimento va alla maliziosa (e sessista…) Everything I Wanna Do quanto all’esplosiva Kiss It Goodbye, cinica nell’invitare la sciacquetta di turno a rinunciare ai suoi vanitosi sogni di gloria all’interno dello showbiz come già fatto nella tagliente Shakin’ Hands di Dark Horse.

Giocando sul titolo del docufilm citato all’inizio, possiamo dire che i Nickelback sono davvero una “hate to love/love to hate band” e nel rock dei 2000 nessuna line-up si è attirata strali e ha conquistato un’enorme platea di fan come loro: a tal proposito, anche nella recensione di All the Right Reasons avevamo detto che i motivi per amarli o starne alla larga in fin dei conti sono i medesimi e banalmente è chi ascolta a decidere quale strada intraprendere. La combriccola gestita dai Kroeger ha tuttavia regalato in (quasi) ogni album un più che soddisfacente rock su ampia scala e Here and Now, nella linea temporale discografica, si porta a casa il merito di aver esteso la striscia positiva iniziata da Silver Side Up coronando un decennio esatto ricco di traguardi inimmaginabili per una miriade di formazioni concorrenti.

Se vi sentite di concedere al quartetto una (nuova) occasione, selezionate al volo il disco analizzato o i tre prima così da risentirli al massimo della forma; non che i lavori successivi vadano trascurati, ma la golden age dei canadesi rimane legata a doppio filo alla dittatura mainstream targata 2001-2011, anni in cui era al limite della fantascienza pensare di evitarli su MTV o in radio.

Jacopo Bizzotto "Indigo"

Nickelback Here and Now

Nickelback All the Right Reasons

Nickelback Curb